Puglia, un nome al plurale.

Su qualche vecchio libro di geografia, di quelli con le pagine cucite, con la carta sottile e porosa, con i  fogli fragili  eppure cosi resistenti al tempo, scorgevo – reclinando il capo e puntando gli occhi di traverso – una Puglia scritta al plurale. Avvertivo tutto il peso di una moltitudine a me sconosciuta. Immaginavo  facce a cui non sapevo dare un volto, terre a cui non sapevo dare un colore, città di cui non conoscevo case, paesi di cui non conoscevo strade.

Mi sentivo piccola piccola di fronte a quello stampato d’altri tempi, elegante, reverenzialmente solenne .

Avrò avuto sì e no 6 anni e per me la Puglia, era una sola. Era la Puglia di casa mia, dei posti che conoscevo e dei volti a me famigliari.

“Perché si chiamava Le Puglie?” domandavo incuriosita andando in là con la mente e immaginando chissà quali storie d’avventura dietro quel nome al plurale.

Qualcuno mi ha risposto: “La Puglia ha tante anime…c’è la Puglia del mare e dei porti, dei castelli e delle pietre, delle masserie e del grano. Ha tanti volti, tanti accenti la Puglia”.

E cosi, sono cresciuta sapendo di vivere in una terra che non avrei mai conosciuto fino in fondo, che mi avrebbe sorpreso con suoni e parole nuove, talvolta colorata di verde, di azzurro, di bianco e d’oro.

E sono tinti di un colore sfocato i miei ricordi di bambina dei primi anni d’elementare, gli stessi anni in cui sfogliavo quei libro di geografia conservato nell’armadio enorme nella camera con i letti sempre vuoti, con gli scuri sempre chiusi, con un odore che sapeva di dimenticato. Ogni volta che andavo a casa dei nonni in campagna, mi dirigevo dritta in quella stanza alla ricerca di chissà quali segreti, cercavo tracce della mia mamma e delle mie zie, volevo che le cose parlassero, che mi svelassero cose che non avevo il coraggio di chiedere.

Restavo a frugare tra le pagine dei libri, aprivo e richiudevo gli stessi cassetti casomai mi fosse sfuggito qualche dettaglio, sbirciavo in punta di piedi sperando di rintracciare qualcosa, ma non sapevo nemmeno bene cosa. Sapevo che potevo restare in quella stanza fino a che non sopraggiungeva prima piano e poi insistente l’odore del sugo, quell’odore che avverte che “il sugo è pronto”. Era il profumo del pomodoro, misto alla carne, che scandiva il mio tempo residuo di permanenza, e quando avvertivo il suo sapore in bocca, fino quasi a diventare materiale, sapevo che dovevo socchiudere quella porta a due battenti, di legno giallino, e tornare indietro.

“Hai chiuso bene la porta?” mi chiedeva  mia nonna mentre procedevo verso di lei. Io le rispondevo frettolosamente di sì deviando l’attenzione ora sull’ andamento della cucina, ora chiedendole dove fosse il nonno, sapendo di entrambe già la risposta. Non mi diceva nient’altro, si rimetteva sui miei passi ritornando sulla porta che avevo lasciato pochi istanti prima, spostava quei battenti anche di un solo millimetro – come ad accarezzarli-  e poi ritornava verso di me, sicura di aver richiuso la porta d’accesso ai ricordi più intimi.

Quegli attimi che aveva perso erano sufficienti  a ribadirmi che aveva poco tempo per preparare la pasta, che nonno sarebbe arrivato di lì a poco. Lei attirava la mia attenzione mentre  io le davo le spalle, ora guardavo alla finestra, ora scoperchiavo la pentola con la scusa di vedere “come era di sale” e intanto  staccavo le alette e i cosciotti minuscoli del piccione al sugo. Avevo come l’impressione di essere stata furba a non farmi sorprendere, ma una volta a tavola distribuiva la carne riservandomi i pezzi manomessi facendo fede al suo motto “in silenzio si fanno le cose”.

La sentivo dimenarsi su quell’impasto fino ad alterare il respiro, chiedeva aiuto solo quando doveva rimboccare le maniche che erano scese sui polsi e arrivata a quel punto sapevo che mi avrebbe chiamato con mille nomi diversi: Marì, Giovà, Lucì erano i primi, a seguire altri nomi, tutti famigliari, che lei stessa tra un’esitazione e un balbettio stroncava sul nascere.

Solo quando sentivo il suo  tono di voce spazientito, sapevo che dovevo correre a sistemare i rotolini di maglia, facendoli salire lungo gli avambracci. In quello stesso frammento  i nostri sguardi si incrociavano, mi   ammoniva con gli occhi severi e mi diceva “impara l’arte”.

Non avevo bene in mente cosa intendesse per arte. Non associavo chiaramente  un semplice  impasto di farina, semola e acqua all’arte.

Eppure lei continuava a chiamarla “arte” cogliendone il senso più profondo e vero. Fare pasta è arte: è plasmare pochi ingredienti per trasformarli in forme diverse di nutrimento. Mi rendevo conto che il mio concetto di arte era limitato ai pennelli e a i tratti di matita, si fermava ai soli fogli scritti dei libri.

Lei mi stava raccontando di una Puglia, fatta di masserie, di grano e di pasta. Lei mi stava raccontando un perché di quel nome al plurale.

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