Aggiungi un posto a tavola

Roma, Stazione Termini, binario 9, sono le 11.20 di una calda mattinata di aprile, il sole è coperto dalle nuvole e l’afa inizia a farsi sentire. Le vado incontro, mia madre mi abbraccia sorridente e mi bacia sul naso, un vezzo intramontabile che mi fa sorridere e allo stesso tempo non sopporto perché mi fa il solletico.

Mia madre continua a stringermi come se fosse la prima volta che sono andata via di casa, quando sono ormai quattro anni che vivo nella capitale. Un abbraccio ogni volta sempre più forte, come se non volesse mai lasciarmi andare (“core de mamma”). Che per quanto emancipata, resta sempre una donna del sud e non accetterà mai fino in fondo che la sua unica figlia “femmina”, più piccola, se ne sia andata via di casa a diciannove anni.

“Dai mamma andiamo a casa – le dico divincolandomi dal suo abbraccio – così lasci le valigie e andiamo a fare un giro in centro”.

Le valigie. Mia madre ha con sé uno zainetto con un beauty e un cambio essenziale per un week-end e poi un trolley di quelli da viaggio intercontinentale.

“Mamma quanto pesa – le dico – ma cosa ci hai messo?”.

“Le cose buone che ti piacciono”. Mi risponde come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Usciamo dalla stazione e attraversiamo le corsie di sosta degli autobus di Piazza dei Cinquecento.

“Ecco il 90 – le dico – Madonna quanto pesa questa valigia! Dai mamma sali prima che parta”.

L’autobus come di consueto è strapieno. Nonostante lo scarso spazio vitale, mia madre inizia a parlare come se fossimo in un bar a bere un caffè. Parlare. Raffica di domande, a dire il vero.

“Come stai amore?”.

“Bene”. Le rispondo da qui in poi a monosillabi perché so già cosa mi chiederà, conosco il repertorio.

“Hai smesso di fumare?”.

(Ti pareva) “No, mi aiuta a concentrarmi mentre studio”.

“E buttale quelle sigarette, ti fanno male! Al posto del posacenere metti una ciotolina con le carote e i pomodorini che si mangiano come ciliegie”.

“Seh magari ci fossero a Roma e se stanno costano un occhio della testa, al massimo trovi i pomodori che sono bombe d’acqua che non sanno di niente”. Le rispondo.

L’autobus prosegue le sue fermate e sale sempre più gente, lo spazio è sempre più risicato, il mezzo prende la Nomentana e finalmente dopo mezz’ora arriva la nostra fermate, Campi Flegrei.

Ce l’abbiamo fatta, penso tra me e me, in questa città, ogni volta, per raggiungere un posto ci metti una vita. A Bari in mezz’ora arrivi dall’altra parte della città (ma questa è un’altra storia).

Scendo dall’autobus trascinando il trolley.

“E non lo strattonare – sbotta mia madre – dentro ci sono i boccacci che si rompono! Si rovescia tutto, Stai attenta!”.

“Dai mamma muoviamoci, ho fame!”.

Apro la porta e wow! A casa non c’è nessuno. Le mie tre coinquiline non ci sono, che pace!

“Mamma tu rilassati, ci penso io a svuotare la valigia”. Metto il trolley per terra, apro la zip ed è subito profumo di casa.

“Stai attenta quando la aprii, non rovesciarla”. Mi urla dal bagno.

“Sii, ho capito!”.

Primo strato, focaccia fatta in casa cucinata alle cinque del mattino prima di partire, è ancora tiepida, c’è anche la pizza! Sottile e croccante come solo lei la sa fare. La fragranza trapassa la carta stagnola. E ancora, crostata con la marmellata di arance fatta in casa. Secondo strato. Parmigiana di melanzane e zucchine. Che buona! Fatta come piace a me con le verdure arrosto e cariche di sugo al pomodoro e basilico.

“Attenta ci sono i barattoli che si rompono! C’è il barattolo di sugo che ho usato per la parmigiana e poi ce n’è un altro con il sugo con le brascioline. Ci sono anche un po’ di bucatini alla pizzaiola, belli croccanti come piacciono a te a tuo padre”. Continua la telecronaca di mia madre in differita che nel frattempo è andata nella mia stanza e mi sta rifacendo il letto.

“Ma’ che stai facendo, statti ferma e rilassati!”.

E lei. “Io non so come fai a vivere in questo disordine!”.

Continuo a scartabellare il “pacco dono”. Nooo! Ci sono anche le orecchiette fatte dalla signora di Bari vecchia, i pomodori sott’olio, che adoro, e poi, coup de théâtre, last but not least, patate e riso e cozze di mia nonna, suddivisa in quattro contenitori.
“La nonna ti ha portato…” “Si ho visto!” “…Così la fai assaggiare alle tue amiche!”.

Rumore di chiavi nella serratura.

“Ehi ciao Giuliana come stai? Vuoi pranzare con noi? Stavamo per metterci a tavola”.

“Si magari!” – risponde Giuliana, di Terni, venuta a Roma per studiare design industriale. Magrissima, viso da modella e capello corto biondo ossigenato, un retaggio del look di un’intera estate trascorsa a Ibiza, per cui tutte le mie coinquiline e amiche annesse vanno matte.

“Sta salendo pure Francesca” mi dice Giuliana, mentre butta giacca e cartella da lavoro sul divano in cucina. Anche lei piccolina e sua collega di studi. “Ciao belle come state?” dice mia madre sbucando dal corridoio, le abbraccia, le bacia e il secondo dopo è subito ai fornelli.

Driiiin.

“Chi è?”.

“Sono Giusi, ho dimenticato le chiavi” (strano!).

“Buongiorno signò, aò ammazza c’ho ‘na fame! Come sta? Tutto bbeene?”.

“Siediti bella che tra un po’ è pronto”. Mia madre l’abbraccia e subito estrae dal trolley

la pizza e la focaccia e le mette in tavola come aperitivo.

Vabbè dai, la focaccia e la pizza ci stanno che le offro, penso, nel frattempo mia madre ha messo l’acqua per le orecchiette da fare con il sugo di brascioline.

Giusi nonostante la cadenza romana, viene da uno sperduto paesino della Calabria dove torna due volte l’anno, anche lei fan d’Ibiza, anche lei capello corto a doppio taglio, nero corvino e vari piercing sul viso.

Parte la musica techno, non è lo stereo ma la suoneria del telefono di Giusi.

“Pronto Ester, sto bene, come è andato l’esame? Me dispiace! Viè qua che la mamma di Marianna sta acchitando un bel pranzetto con le cose portate dalla Puglia”. Tutto questo come al solito senza chiedere se la sua amica, tra l’altro super coatta, è gradita come ospite. E nel frattempo anche le orecchiette sono volate.

“Quante siete ragazze?” chiede mia madre, mentre anche i bucatini sono diventati parte dell’aperitivo, dato che le mie coinquiline hanno già spazzolato la pizza e la focaccia e nel frattempo a messo su altra acqua per la pasta da fare con il sugo semplice.

“Sta arrivando Ester signò co’ artre du’ amiche”.

Tempo dieci minuti ed Ester arriva accompagnata da Erika e Deborah. Bomberino rispettivamente rosa e nero, jeans attillati e anfibi, la perfetta divisa della coatta romana.

Le tre senza troppi convenevoli si siedono, mia madre non fa in tempo a mettere i piatti in tavola che hanno già sbranato tutto.

“Non puoi capì – inizia a parlare a bocca piena Ester – quel bastardo del professore di semiotica è la terza volta che me boccia!”.

“Non lo dì a me – le fa Erika – io l’ho dovuto rifà tre vorte l’esame prima de pijà un diciotto!”.

Che strano penso, chissà come mai!

“Che c’è stà artro da magnà signò? C’ho ‘na fame!” è la delicatissima Deborah che fino ad allora non aveva proferito parola perché troppo impegnata a ingoiare il cibo.

“No mamma non lo fare!” penso e inizio a innervosirmi. Patate, riso e cozze della nonna, no! Almeno quelle voglio farle assaggiare alle “mie” amiche! E niente, mia madre le ha già tirate fuori dal trolley e messe in tavola. Lei si toglierebbe il cibo di bocca pur di non fare brutta figura con gli ospiti. Anche il comfort food della nonna è andato.

“Aò ma non è che ce stà pure er dorce? M’è rimasto ‘no spazietto!” chiede Giusi senza troppa vergogna.

“Si – dico io – che non avevo proferito parola durante tutto il pranzo ed ero anche incazzata! C’è la crostata fatta in casa”.

“Ammazza che bona” fanno coro le tre “coatte” che la sbranano senza troppi complimenti.

Sono loro che dettano banco a tavola, tra dialoghi senza senso con una copiosa dose di “aò” “ammazza” “che taglio” e parolacce varie. Io, mia madre e le altre due coinquiline siamo imbarazzate e non diciamo più nulla, mentre loro hanno mangiato più di tutte le leccornie che mi dovevano durare almeno una settimana.

Mamma torna presto, anzi no meglio che “scendo giù” io, così potrò mangiarmi tutte le cose buone che solo tu sai fare. E se volete, il caffè, fatevelo da sole o andatevelo a prendere al bar. Scroccone!

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