Central Pasta: da Brooklyn al cavatello

Un viaggio a New York è sempre un gran viaggio. Una di quelle avventure che ti lascia, al ritorno, dovunque tu possa essere nato, una grande nostalgia. New York, la grande mela, Big Apple: più che una città è “la” città, più che una meta è “la” meta, un crocevia immenso di culture, sfumature, colori. Melting pot, in questo caso, non è solo uno dei soprannomi della città, è una realtà, una filosofia: la fotografia dell’insieme di elementi diversi che compone New York. Città della convivenza: a Ellis Island sono arrivate decine di migliaia di speranze, da Ellis Island sono partite decine di migliaia di storie. Ci siamo stati ieri. Sotto la statua emblema della libertà e nel museo simbolo della liberazione. Migliaia di cognomi italiani tra i 51 milioni di passeggeri approdati al primo fronte degli States. C’è pure chi ha il mio cognome, non so se sia un parente. Molti sono arrivati dalla Puglia, qui li chiamano records con un tecnicismo che si allontana dallo splendido clima di commozione e ricordo. La Dante Alighieri, la Guglielmo Peirce, la Conte di Savoia alcune delle navi che li hanno portati qui. Tra queste anche il gigante che ha trasportato, Don Attilio, il fondatore della Granoro, che a 7 anni arrivò in America con un sogno, a 20 ripartì da New York con un’idea.

Ho pensato anche a tutto questo mentre lasciavo Central Park, un’isola verde nel cuore della città più urban che ci sia, uno spazio che apre la mente (e allena il corpo), lascia il tempo per riflettere, ti stoppa rispetto alla frenesia dei borough. Qualche passo più avanti mia moglie, qualche passo dietro i miei amici, Felicia colombiana di nascita ma meridionale di adozione e Patrizio italiano (barese) di nascita ma cosmopolita per carattere.

A questo e tanto altro pensavo mentre lasciavo Central Park, è dicembre, con lo stesso dubbio, neppure troppo originale e intelligente, del giovane Holden: “Ma che fine fanno di inverno le papere del laghetto di Central Park?”. Giusto in tempo, tra uno scoiattolo e una carrozza, per il pranzo. “Ma quanto è grande Central Park? Mica è vero che se li chiami 3 miglia, i 5 chilometri sono più brevi”. E soprattutto vi sembra mica giusto che uscendo da quella sfacchinata pseudo-podistica che è Central Park, appena messo piede sulla 59th, si legga pasta e pizza un po’ dovunque?

Lo stomaco così non regge. Certo, nessuna delle offerte si avvicina ad un piatto rampante di spaghetti. Niente di tutto questo ha il sapore dei taralli della nonna, freschi come l’arietta di Central Park, nulla avrà il gusto della mozzarella e dei formaggi nostrani, nulla del gelato artigianale (che con temperature vicine allo zero almeno non ti viene voglia). Ma quelle sono #granostalgiediPuglia. E i simboli, a volte, richiamano più dell’essenza stessa delle cose.

Nell’ordine, andando a Sud attraversando Midtown, la pasta per la maggiore è quella dell’opzione cheap and fast. Tanti fast food e botegas (si, botegas con una ‘t’) offrono pasta fredda e scotta con insalate, mais, salse e salsine. Di sugo nemmeno l’ombra, ristoranti italiani dai nomi bizzarri e grammaticalmente scorretti offrono la solita bologniesi con taliatele da Little Napoli o la pasta alla matriciana da Rugantino’s. Per un pugliese (e italiano), ogni volta un colpo al cuore. Ma, diavolo, siate originali o almeno sappiate scrivere per bene. Cucinano con impegno per i turisti, ma il risultato nella maggior parte dei casi non è all’altezza. Che poi, qui, il Tip, la mancia, è quasi obbligatoria. O meglio non sei obbligato, ma se non la dai si incazzano e i camerieri sottopagati se la prendono. Cornuti e mazziati, diremmo al Sud.

Appena passata Midtown, tocca alla 23th e al Flatiron Building (il palazzo ferro da stiro dei telefilm). Che per un gruppo di italiani da quattro giorni a hot dog e bacon significa soprattutto Eataly. Buona qualità, lo sforzo nel replicare le orecchiette con le cime di rapa è da apprezzare. E sì, perché non è mica facile preparare orecchiette con le cime di rapa, senza cime di rapa. Con i broccoletti non funziona, ma vai a spiegarlo ad un americano. Io l’inglese nemmeno so parlarlo alla perfezione.

Più a sud, East village e Soho, ottimi ristoranti italiani, pasta con condimenti ricercati e saporiti. “Ciò che manca è la semplicità di un primo piatto pugliese, semplice è più buono per noi. Ma la semplicità qui non ha sapore”.

Via per il ponte, tanti in bici, qualche keep right urlato così un po’ a caso con slang americano, via a Brooklyn. Nei supermercati si trovano gli ingredienti giusti, ma anche qui c’è un grande assente: il cavatello. La nostalgia di Puglia sta tutta qua: un buon piatto di cavatelli con le cozze che neppure la Statua della Libertà. Felicia e Patrizio annuiscono, i loro occhi confermano. Mia moglie ormai è rassegnata. Stasera, steakhouse.

Da Central Park a Brooklyn, per un momento si passa anche da Bari e Corato. Solo con la fantasia e l’immaginazione, però. Perché New York è un gran viaggio, tocca solo non farsi prendere dalla nostalgia del cibo. E del cavatello.

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