Cucinando pasta, lei ha ritrovato la primavera

Nicoletta lavorava nel ristorante della mia famiglia da circa vent’anni eppure non conoscevo la circonferenza dei suoi polpacci. Ignoravo le sue caviglie. Non sapevo se fossero piccole e definite o se si ergessero su un collo ampio e disteso, come le colline morbide della nostra Valle D’Itria.

Di Nicoletta mi erano sconosciuti i passi. Se allargasse i piedi come nella camminata dei pinguini, in quella posa che ricorda le lancette dell’orologio fisse sulle 10 e 10 – se di giorno o di sera non era dato saperlo – o se, magari, trascinasse un gamba per una caduta dell’infanzia o una borsa pesante portata per troppi anni su una spalla sola. Di Nicoletta, entrata alla mia età nel ristorante di mio nonno e, dalla mia infanzia, presenza costante del mio quotidiano, mi era nascosta la metà dietro la cassa.

Se i minotauri avessero avuto una catena di ristoranti, Nicoletta sarebbe stata candidata perfetta: metà donna, metà cassa. Era sempre lì, con i suoi capelli scuri come il velo dell’addolorata e il suo rossetto vivo e rosso qualità ciliegia. Aveva gli occhi vispi, sempre attenti alla sala e all’ingresso. E un sorriso elegante e familiare al tempo stesso, come l’augurio di una buona serata dei conduttori dei telegiornali alla tv.

Arrivava al ristorante sempre prima del mio ritorno da scuola e andava via quando già ero stato messo a letto con l’invito ad una preghiera, che ogni anno si faceva più breve e incerta, di pari passo con l’aggressività della mia acne. Per sommo dispiacere di mia nonna, stavo crescendo più come adolescente che come chierichetto.

Così, ogni giorno, scorazzavo per il ristorante di mio nonno con Nicoletta che mi guardava come le torri dell’orologio guardano il passeggio domenicale nelle piazze dei loro paesini. Intorno e vicino a lei tutti si muovevano, camminavano, parlavano mentre lei era sempre lì, composta sul suo sgabello senza schienale, a contare i primi, le bottiglie di vino, offrire l’amaro della casa e a salutare con il migliore dei suoi sorrisi. In un ristorante che sapeva di masseria, con la sua pietra viva, i giganteschi ferri di cavallo appesi alle pareti, i setacci per il grano e i drappi di pomodoro e aglio sospesi sugli archi della sala, l’angolo di Nicoletta rappresentava il tributo della tradizione campagnola al capitalismo della modernità. Per anni sono stato convinto che Nicoletta portasse dentro il peso di quel suo ruolo pratico in quell’ecosistema naturale. Che fosse il motivo principale per cui non lasciava mai il suo recinto di legno, il banco da cui assisteva a quella messa senza partecipare alla sua comunione.

Quando mio nonno fu costretto a passare il ristorante nelle mani di mio zio e poi mio zio nelle mie, decisi che la storia di Nicoletta sarebbe venuta prima del nuovo menù, del restyling dell’insegna, della risposta di quel ristorante pugliese al nuovo mondo globalizzato. Se quel posto doveva diventare il mio nuovo racconto, sentivo di non poter prescindere dall’unico piatto di quel ristorante di cui non avrei avuto nulla da dire, descrivere, parlare: la vita della sua cassiera.

Nicoletta accettò il mio invito al tavolo con la sorpresa e la tensione di un bagnino costretto ad allontanarsi dalla sua torretta in un weekend di pieno agosto. La rassicurai mostrandole la sala piatta e deserta, come il mare di settembre. Aveva delle caviglie sottili ed eleganti, portava i tacchi. Solo più tardi scoprii che li portava sempre e che mai, sfruttando il sipario della cassa, osava toglierli per riposare i piedi. Prese posto senza poggiarsi allo schienale della sedia, la spinsi con un sorriso all’indietro, verso una seduta nuova, più comoda. Si lasciò andare come i bambini nei tuffi con la mano al naso.

“Ti conosco da vent’anni, eppure non so niente di te. Mi piacerebbe recuperare adesso”.

Aveva cinquant’anni. Viveva con suo figlio nel paesino di mio nonno ed era Nikoletta con la K. Era arrivata dalla Grecia negli anni settanta, durante la dittatura dei colonnelli. I suoi genitori avevano scelto la Puglia per il mare, per il clima e perché contavano di tornare a casa non appena le cose fossero migliorate. Ma in Puglia, a sedici anni, aveva partorito il figlio di un amore immaturo e aveva deciso di rimanere qui, con suo figlio. Il figlio era adesso cresciuto e lavorava in banca, a Roma. L’amore immaturo invece no, ed è finito. Suo figlio le aveva proposto di raggiungerlo, sarebbe stata con lui e lui avrebbe provveduto a prendersi cura di lei. Ma Nikoletta non volle muoversi.

Quella sera, le chiesi se le mancasse la Grecia. Mi rispose che a mancarle era la Puglia. La Puglia nella quale era cresciuta con la sua famiglia. Una terra fatta di profumi, sapori e colori a cui guardava come un bambino guarda la primavera: un tempo di transizione e splendore, dove ogni cosa è illuminata, di mezzo tra il freddo alle spalle e la nuova estate. Da allora nella vita di Nikoletta si erano succedute stagioni su stagioni, ma quella primavera non era più tornata.

Le chiesi se la foto di quel caratteristico paesaggio greco appesa nella cucina del ristorante fosse sua. Mi rispose, con la testa bassa sul coperto della pagina del menu, che non era mai stata nella cucina del ristorante. Nessun divieto specifico: semplicemente nessuno l’aveva mai invitata a entrare.

Era rimasta incastrata Nikoletta alla cassa del nostro ristorante di famiglia proprio come sulla riva della Puglia. Sospesa tra la cucina e il mare, entrambi inaccessibili.

La storia di Nikoletta è stata la prima pagina della nuova storia del nostro ristorante, la prima pagina della mia gestione del nostro ristorante. La ascoltai una sera di cinque anni fa. Da allora Nikoletta siede dietro un banco vetrato, su uno sgabello con schienale. I suoi polpacci non sono più negati alla vista di alcuno, come sempre lo era stato il suo sorriso sofisticato e accogliente.

Cucina per noi. Tutti. Ogni sera al termine del servizio. Cucina piatti di pasta, per il nostro chef, per il personale di sala, per me e per tutti i membri di una famiglia allargata che da oltre cinquant’anni porta la Puglia in tavola. Da quando è entrata il primo giorno in cucina dice che la Puglia non le manca più, e neanche la Grecia e, mi piace pensare, ha ritrovato la primavera.

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