Giorni senza nome e una focaccia alla tranese

Ho il calendario indietro di un mese. Fisso quel foglio scaduto. Perso. Andato per sempre. Qualcosa mi dice che è il mio modo di fermare il tempo. Di sospendere i giorni, di farli vivere in un tempo senza tempo. Giorni anomali, giorni senza nome. Eppure di giorni senza nome ne è piena la vita.

Che giorno era quando ho balbettato il mio nome? E quando ho scritto la mia prima parola in corsivo? Quando ho sentito il mio cuore battere anche nello stomaco? Poteva essere un lunedì, una domenica o un martedì, il primo del mese o forse un mercoledì di seconda decade. Che scemenza.  Era un giorno. Eppure mi piacerebbe fissare giorni di vita quotidiana, giorni fatti di piccole e grandi cose memorabili, quelle per cui sai che rivivranno mille e più vite nei tuoi pensieri. Giorni che ritorneranno nei racconti, che ripeterai così tante volte che finiranno per essere  ritornelli. È il nostro modo di essere cantori, affabulatori di giorni senza nome.

E cosi – mentre occhi, labbra e mente sorridono – ricordo quei giorni di luglio, di non so quale anno. Il mare, le saline e le zanzare. La sabbia scura. Avevo come l’impressione che quell’acqua fosse più salata delle altre. I miei giorni trascorrevano un po’ stanchi tra notti quasi insonni e disturbate da un numero spropositato di zanzare e a nulla valevano nubi di flit, fornelletti di ogni specie attaccati alla presa di corrente, finestre e porte chiuse nemmeno avessimo un nemico da sbarrare.

Ricordo un altro stratagemma, suggerito da una signora del posto: un rimedio della nonna, tanto incredibile quanto fantasioso – che mi accompagna da allora – che si è trasferito dal mare alla mia collina. Quella signora, con un fare spontaneo e naturale, ci aveva detto di mettere dell’aceto in un piattino.  Era una donna di mare e sapeva come trattare le zanzare. Sapeva come tenerle a bada.

Alla sorpresa iniziale, seguiva la rassegnazione di  un’adolescente che avrebbe finito di puzzare d’aceto o peggio ancora di combinare l’odore di sottaceti con l’odore della vaniglia dei bon-bon Malizia. Mi convincevo “meglio la puzza dell’aceto,  che le punture delle zanzare” e così ogni sera preparavo quel piattino dosandone la quantità e confidando che quel curioso e incredibile metodo, al limite del folkloristico, funzionasse.

Ogni mattina, al risveglio, validavo l’efficacia del piattino con la conta delle punture sulla pelle, e per quanto non ne fossi pienamente convinta, ammettevo che l’aceto riuscisse in parte ad allontanare le zanzare da ogni mio centimetro di pelle scoperto.

Ero ospite dei miei zii in una villetta lontana dal litorale marino, per cui ogni spostamento avveniva in macchina: io e miei cugini costretti nel sedile posteriore in uno spazio che avevamo imparato a dividere per quattro. Dividevamo per quattro la sdraio sotto l’ombrellone. Dividevamo per  quattro i cracker di metà mattinata. Dividevamo anche le risate. Erano chiacchiere e risate chiuse tra di noi con il sommesso desiderio di allargarle a persone a noi familiari. Ogni mia telefonata a casa era fatta di racconti puntuali: cosa avevo mangiato per pranzo, cosa per cena, raccontavo delle mie notti insonni e della mia pelle bruciata dal sole. Ogni telefonata era farcita da un sottomesso e gentile “quando venite a trovarmi al mare?”, per concludersi con un imperativo e categorico “venite e basta”.

Chi non doveva farsi fare due volte l’invito era una zia. Una zia di Trani, una spigliata e arzilla settantenne. A pensarci nessun aggettivo poteva qualificare la sua vitalità, la sua energia, la sua gioia di vivere. Si presentava come una donna sofisticata, portava al mignolo un elegante anello ad esse che notavo meglio quando passava la sua mano nei capelli fini con la sfumatura viola.

Dall’alto delle sue frequentazioni nella bella società ci raccontava di cene e di viaggi. Non perdeva occasione per raccontarci la bellezza della sua Trani, dei bei palazzi storici e del mare. E delle uscite in campagna a raccogliere fichi e altri frutti di stagione. Con a seguire  giorni laboriosi a sistemare altri fichi al sole e girare confetture. A tratti la trovavo respingente, con un savoir fare oltre misura, ma molto di più mi attraeva la sua eleganza e la sua imprevedibilità.

Imprevedibile, come quel giorno che scavalcò il cancelletto della villetta al mare e – approfittando della porta aperta piombò in casa – accompagnata dal fragore della sua risata inconfondibile. Aveva nelle mani due fagotti, sapeva che quelli bastavano per farsi perdonare dallo scherzo che ci aveva tirato. In effetti, il suo piano era riuscito alla perfezione: nemmeno il tempo di smaltire lo spavento che l’assalimmo chiedendole insistentemente cosa aveva tra le mani. Lei si ritraeva, come a continuare il gioco del suo esordio, ci teneva sulle spine invitandoci ad indovinare e, assecondandola, le voci urlanti si sovrapponevano con nomi di piatti inverosimili.

Io non osavo nominare la focaccia, di cui tante volte mi aveva raccontato, per paura di restare a bocca asciutta. Ma quella volta era un giorno speciale, un gustoso giorno senza nome.

Focaccia alla tranese

½ kg di farina

¼ di cubetto di lievito di birra

2 patate bollite schiacciate

1 cucchiaio di olio

½ cucchiaio di sale

1 cucchiaio di zucchero

Acqua q.b.

Pomodori, origano, sale e olio per condire

Formate un impasto e spostatelo nella teglia,  lasciatelo lievitare tutta la notte, fuori dal frigo. La mattina dopo guarnite con pomodori, origano, sale e olio. In forno alto per mezz’ora.

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