Just Puglia

Quella volta persi le valige. E va bene, non è una tragedia, ma converrete con me che non è il modo migliore di iniziare un’esperienza dall’altra parte dell’Oceano. Un viaggio lungo 24 ore, di quelli che ti sfiancano e non si raccontano. Perché non è tanto la durata a preoccupare, quanto l’ignoto, ciò che ci aspetta. Siamo tutti coraggiosi prima di salire su un aereo. È quando decolla che ci rendiamo conto di quello che ci stiamo lasciando alle spalle. All’alba dei 25 anni ho fatto la prima grande scommessa della mia vita. Mi sono licenziato, rinunciando al posto fisso, per andare a vivere a San Francisco.

“E che si mangia a San Francisco?” fu l’unica domanda di mia madre, pronunciata ad alta voce mentre ero intento a sbagliare tutto quello che potevo, nel fare la valigia.

“E che ne so mà, si mangeranno robe americane” le rispondo senza guardarla, indeciso se portare la felpa o il maglione pesante. Me è agosto e opto per la felpa con il cappuccio, quella leggera.

“Sì, ma gli americani mangiano tutti gli hamburger, portati qualcosa” non era un consiglio, era già andata, a passo sicuro, verso la cucina a prendermi il necessario per la sopravvivenza.

“Mamma, dove vai? Ma secondo te posso portarmi dietro le passate? Stai tranquilla, mica vado al fronte”.

Ho scelto la California perché l’America mi ha sempre fatto un po’ paura, e mi hanno detto che San Francisco è la più europea delle città. Certo, che non pensavo di doverla affrontare senza valige.

“Ha intenzione di compiere atti terroristici?” dice il foglietto che devo compilare prima di fare il mio trionfale ingresso negli Stati Uniti, a Philadelphia. Compilo con curo e presento all’agente, certo di non dover perdere troppo tempo a spiegare quali sono le mie intenzioni. Anche perché, formalmente, non ho alcuna intenzione, se non quella di imparare bene l’inglese. Che al momento del mio colloquio con l’agente alto, muscoloso e brutto, sembra essersi disperso nell’aria.

“Au long iu stai far” è tutto ciò che riesco a cogliere da una domanda molto più complessa e articolata che l’agente mi rivolge. Vai a spiegarglielo che in mano ho un biglietto di sola andata. Il tipo sembra nervoso, mi chiede dove ho intenzione di stare e sta facendo di tutto per farmi perdere la coincidenza per San Francisco. Gli mostro un indirizzo, quello del mio ostello per la prima notte: Orange qualcosa, 451 Mission Street. Vivendo in America capirò l’importanza del numero prima della via, a meno che voi non abbiate intenzione di cercare una casa o un albergo su una via lunga 10 o 20 chilometri. Orange qualcosa è tutto ciò che so del mio futuro. L’agente energumeno mi chiede se conosco qualcuno in California e gli sparo il nome di uno con cui ho parlato due volte su Facebook, ma che di fatto non ho visto mai. “Jesse Calvi” dico, come se fosse una persona famosa. E lui vuole sapere tutto di Jesse, di come ci siamo conosciuti e di dove andremo in questa folle estate americana. Io guardo ripetutamente l’orologio, ma lui è inflessibile, vuole sapere se porto in America qualcosa di pericoloso.

“Just Pasta” – gli dico scherzando.
Ora, vuoi perché il tipo non è incline agli scherzi, vuoi perché su due parole sono riuscito a metterci pure l’errore, l’agente mi chiede di aprire la valigia. Inutile ricordargli, a gesti, che sto per perdere la coincidenza. Appoggio la valigia e gli mostro felpe, calzini spaiati, t-shirt, maccheroni e barattoli di pomodori sott’olio. La gente alle mie spalle mi guarda come un emigrato di inizio ‘900. I pomodori sott’olio destano ardimentosi sospetti, l’agente fa un grande sforzo per aprirli, finché non lo fermo con un gesto inequivocabile. È la classica faccia che mi faceva mia madre quando provavo, da piccolo, ad aprire i lampascioni. Avete presente quella che dice “Fermo, se li apri te li mangi”? Ecco, quella. Mi riprendo il barattolo come un bambino sotto di tre a zero al parco si riprende il pallone e va a casa, e chiedo all’agente se ci sono any questions.

Lui da due veloci occhiate alla foto del mio passaporto – lo sapevo che non dovevo far crescere i baffi prima di partire – e mi lascia andare. Il tempo di affrettare il passo verso l’imbarco, che sento ancora quella voce da lontano. In un inglese inconsueto, italianizzato mi chiede: “What part of Italy comes those… pomodori?”

“Puglia” lo guardo con orgoglio.

“My nonno era di Puglia” E per poco non ci mettiamo a piangere tutti e due. Ecco, in quel preciso istante ho deciso che avrei perso la coincidenza, il volo e le valige. Che avrei affrontato i miei primi due giorni a San Francisco senza mutande di scorta, senza felpe (a proposito, se andate a San Francisco ad agosto portate un maglione, di quelli pesanti pure) e senza scarpe di ricambio. Per il gusto di regalare i pomodori sott’olio ad un agente americano di origini pugliesi. Lui, inflessibile, dice che non può accettare. Gli indico il Duty Free dove li lascerò per lui. Mi ringrazia e mi dice:

“And you? Just Pasta?”. Adesso sembra che ci conosciamo da una vita. Mi prende anche per il culo per il mio tremendo inglese.

“Don’t worry man. Just Puglia” gli faccio il gesto della vittoria con l’indice e il medio, e vado via, verso un aereo che perderò e verso il viaggio più faticoso e bello della mia vita.

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