Mezzo chilo in due

Una volta si chiamavano sogni. Al massimo, se volevi essere più realistico, obiettivi. Oggi lo chiamiamo piano B, perché nessuno è davvero felice di quello che fa. Siamo la generazione del piano B, quella che anche quando trova un lavoro e si “sistema” cerca sempre un’alternativa. Un ristorante in collina. Un agriturismo sul lago. Un chiringuito in un paese esotico. Ogni volta che parlo con qualcuno viene fuori un’idea, un progetto che nella maggior parte dei casi non verrà mia realizzato, per vivere una vita più sostenibile e meno stressante. Poi nessuno ci crede davvero, e quei pochi che lo fanno finiscono per diventare più insopportabili di prima. Andai a trovare Mauro nel suo agriturismo di Altamura il giorno dopo Pasquetta. Uno di quei giorni tranquilli, in cui la gente è tornata ad occuparsi delle cose che non ama fare e il sole, chissà per quale motivo, è tornato a splendere. Dedichiamo trattati filosofici sulle altissime probabilità che a Pasquetta ci sia pioggia e non spendiamo mai una parola per il sole del martedì. Quella mattina un fascio di luce illuminava la via che da Altamura porta a Matera. Una strada senza speranze, una corsia unica sulla quale si alternano macchine, motorini, cavalli, ottimismo e silenzio. Una strada da godere, perché la nemesi è quella di un tragitto che ti porta fuori dall’ordinario. Da quando vivo a Milano conosco solo strade perfette. Indicazioni sicure, tempi precisi. Perdersi è possibile, ma solo per mancanza di volontà. Altrimenti attacchi il navigatore e liberi il cervello. Per riempirlo di pensieri, paure, preoccupazioni. Qui l’unica preoccupazione è arrivare. Dove dovrò girare? Strada Statale 76, Km 119. Le indicazioni di un tempo. Pietre bianche che resistono lì da cent’anni, dove qualcuno si è preso la briga di scrivere il numero del chilometro con un pennarello talmente indelebile che ha resistito alla pioggia, alla neve, al sole che quando batte fa venire il mal di testa, a Facebook, ai navigatori, alle parole d’amore scritte da qualcuno che si è innamorato proprio al chilometro 115. Imbocco il sentiero che porta verso il Pulo, in lontananza si intravede una tettoia di mattoni rossi, non ancora finita, un casolare giallo ocra, un ulivo secolare. Dalla strada si alza talmente tanta polvere che ad un certo punto non vedo più il casolare e non distinguo più l’ocra dal mattone, vedo solo Mauro, che viene verso di me con una bottiglia di Aglianico, rosso, in mano.

“Benvenuto Claudio” la sua voce arriva fin dentro la macchina. Ho chiuso i finestrini per evitare di respirare polvere, anche se quella che viene dalla terra ha un sapore diverso, primordiale.

“Come stai vecchio? – punto il mio sguardo sulla bottiglia di vino – Iniziamo presto a brindare?”

“Sto sperimentando una nuova forma di accoglienza. Si chiama cortesia. Pare funzioni”.

Già la cortesia. Chissà quando ce la siamo dimenticata, o l’abbiamo sostituita con un surrogato antipatico chiamato “formalità”. Una bottiglia di vino, un sorriso, un abbraccio, e la giornata può cambiare.

“Ti sei sistemato vedo” Gli dico mentre lui è intento a riempire il bicchiere.

“Abbiamo quasi finito i lavori, entro giugno dovremmo essere pronti, per ora sto puntando sulle prenotazioni”

“E quante ne hai fatte?”

“Nessuna, ma nel frattempo ho imparato a curare un orto”.

Mauro faceva il pubblicitario a Milano, ha lavorato anche per Silvio, almeno così racconta. Avevamo studiato insieme e poi eravamo partiti per lavorare. Il suo piano B è iniziato nel momento stesso in cui ha messo piede, per la prima volta, a Milano. Odiava il lavoro, odiava la città, non sopportava la fretta. Peccato che era dannatamente bravo in ogni cosa che faceva, e questo ha rallentato di molto la sua decisione. Un giorno di questi mi ritiro in campagna, diceva. Magari avrà avuto zero prenotazioni per il suo agriturismo, però almeno aveva smesso di piangersi addosso e fare una cosa che odiava.

“Mi fai vedere l’orto?”

“Certo, stamattina ho raccolto le zucchine. E un po’ di pomodori. Dovresti assaggiarli. Ti fermi a pranzo?” Mi dice mentre con la mano sinistra mi indica l’atrio e mi mostra l’ingresso del casale.

“Devo tornare a Milano, ho il treno alle quattro”

“Perfetto, alle 12 siamo a tavola. Ho raccolto i funghi freschi ieri, sono cardoncelli, devi assaggiarli assolutamente”.

Non faccio in tempo a dirgli sì o no. Lui si è già girato, ha iniziato a raccontare con entusiasmo di Mohamed, il ragazzo marocchino che lo aiuta con i lavori.

“Sa fare tutto, dai lavori di muratura all’idraulico. Se questo posto sarà pronto a giugno sarà tutto merito suo”

“Hai già pensato a come chiamarlo?”

Mauro si fa serio. Si mette una mano sulla bocca e con l’altra si gratta la testa.

“Ho sentito degli esperti di marketing. Non ci capiscono un kaiser, credimi. Si riempiono la bocca di business plan, target, personas, e non sanno che stanno parlando con uno che qualcosa ha letto”.

“Fammi capire, tu hai lavorato per la più importante agenzia di pubblicità italiana, una delle più rinomate in Europa e ti affidi ad un pubblicitario locale?”

“I tempi sono cambiati, vecchio. Se ti fermi un attimo, e ti metti a raccogliere i funghi o curare l’orto, arrivano quattro mocciosi che ti fregano. Ne sanno una più del diavolo”

Mi chiamava vecchio perché sono più grande di lui di tre mesi. È un destino che mi porto dietro da quando avevamo 13 anni.

“Allora sono bravi” gli chiedo?

“Ancora no, ma lo diventeranno. Insomma, ti dicevo che mi hanno proposto nomi assurdi, senza senso, hanno scritto progetti che non avevano nulla a che fare con questa terra, con la storia del Pulo, con l’orto. Insomma con il nome sono in alto mare e con la comunicazione pure”

“Io penserei prima a finire il tetto” gli dico passando da un punto della casa dalla quale entra un raggio di sole, giusto all’altezza del mio occhio sinistro. Mauro sorride. Mi invita a prendere posto a tavola, ancora una volta senza parlare. Un gesto con la mano e il rumore della bottiglia di vino, di vetro, appoggiata con la giusta decisione sul tavolo in marmo. Freddo, perché lì il sole non batte, e ripenso a quando da piccolo, nelle giornate particolarmente calde ci spiaccicavo la faccia sopra. Era meglio dell’aria condizionata.

“Questo è il tavolo che era casa dei tuoi”

Mizzica che memoria”

“Ohi, che mica ho cent’anni. Me lo ricordo perché ci mettevo sempre la faccia sopra, quando fuori era caldo”.

“Quanta pasta butto?”

“Vediamo se ti ricordi”

Mezzo chilo in due” mi dice all’istante. Come se fosse una frase in codice.

Era il nostro modo di far capire ai suoi genitori che mangiavamo di gusto, che avevamo molta fame, che avevamo giocato, per ore, a pallone nel cortile e non vedevamo l’ora di recuperare energie. Che eravamo forti, ubbidienti e mediterranei.

“Sicuro allora – mi guarda – mezzo chilo in due? Guarda che tra i funghi, i pomodori freschi e il pecorino fresco…”

“E butta Mauro, che non te la senti?”

Mangiammo di gusto. Parlammo del suo agriturismo. Arrivava un bel venticello dalla finestra. Era un vento di speranza, quella di una vita più sostenibile. Il lavoro aveva trasformato Mauro in una persona cinica e aveva incupito il suo sguardo. Mi faceva piacere rivederlo vivo e battagliero. Il suo piano B faceva acqua da tutte le parti, ma i suoi occhi avevano ripreso luce, e il suo passo vigore. Gli promisi che sarei tornato a trovarlo una volta finiti i lavori.

“Mi passi il pane per la scarpetta?”

“Buono il sugo che ho fatto, eh?”

Primordiale” gli dissi mentre mi leccavo le dita.

Mi alzai di fretta, un po’ intontito dai cardoncelli, dal vino, dalla pasta.

“Ah, se ti viene in mente qualche nome…”

“Contaci, pubblicitario. Intanto vado” Lo abbracciai. Con vigore. Come si fa in Puglia. Senza paura di stringersi e baciarsi, semmai. Uscendo gli dissi solo una cosa.

“Mezzo chilo in due”.

E lui sorrise. Forse ero arrivato prima della tettoia, di Mohamed e dell’orto. Chiusi la porta lasciando alle mie spalle il piano B di Mauro. Davanti a quel mezzo chilo di pasta e quel sapore primordiale le nostre scelte di vita non erano poi così distanti. Respirai aria buona e sorrisi prima di aprire lo sportello della macchina e avviarmi verso quello che, per me, era l’unico piano possibile.

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